Respiriamo, per rendere giustizia a George Floyd

È terrificante vedere la semplicità con la quale una vita spira via, flebile come un alito di vento sotto il giogo di un ginocchio di ignoranza, di pregiudizio e connivente indifferenza. Quella voce flebile che non chiedeva altro che continuare a vivere, sognare, sperare, sbagliare, spezzata da chi si credeva in potere di decidere seduta stante della vita di un altro, deve tuonare dentro tutti noi.
La leggerezza brutale con cui questo omicidio è avvenuto, tra occhi conniventi e impotenti, pesa. Grava direttamente sul cuore stesso del nostro vivere in società; colpisce con violenza inaudita tutto quello in cui crediamo; incrina la fede nella certezza che la forza debba essere monopolisticamente detenuta da un terzo in luogo di chiunque, così da tutelare in modo imparziale la salute e il massimo grado di libertà per tutti.  
Proprio chi avrebbe dovuto ergersi a garante del nostro diritto a vivere sicuri e liberi, si è arrogato quello di annichilire ciò che era chiamato a custodire. Lo ha fatto nel modo peggiore, inoltre, ammesso che sfumature di orrore in vicende del genere possano esserci, perché quel ginocchio ha affondato la sua morsa nella piaga purulenta, mai sanata, del razzismo e dell'odio nei confronti del diverso. 
È plastica ed iconica l'immagine; ineluttabile vedere in quel viso a terra e fiato spezzato, in quel menefreghismo da mani in tasca il racconto dei rapporti tra neri e bianchi, tra oppressi ed oppressori che la storia umana testimonia e che non dovremmo mai smettere di raccontarci. 
Il fuoco della protesta è divampato con la sequela di immagini condivise, all'unisono: impossibile rimanerne sorpresi. Dialetticamente l'oppresso rivendica il proprio posto da oppressore e il campo di battaglia di un'integrazione mai davvero conclusa dilaga dall'asfalto ai supermercati, nelle strade, nei locali, un po' ovunque, nonostante si parli del paese in cui anche una persona di colore può raggiungere, a fatica certo, le più alte posizioni sociali, mentre scrivo, invece, da un paese nel quale a stento ottieni granché per merito, se non sei bianco e cattolico. 
Eppure questo epilogo, ne sono convinto, non è accettabile e non rende alcuna giustizia a George Floyd, ricalca semmai la stessa modalità che lo ha portato alla morte, schiacciato da un indegno rappresentante della legge, non dalla legge; soffocato da chi si illudeva di essere al di sopra del diritto, cercando con la connivenza di un dipartimento di eluderlo, mentre ne era anch'egli sottoposto. Uno stato di diritto compiuto e maturo, infatti, non può accettare che un cittadino in custodia alle forze dell'ordine perda la vita in questo modo. Uno stato di diritto compiuto e maturo non può permettere che dei cittadini, presi da sacrosanta indignazione, si vendichino seminando devastazione e panico. Uno stato di diritto compiuto e maturo non può avere un presidente che minaccia le armi contro propri cittadini, né ufficiali di un dipartimento di polizia che fanno quadrato attorno ai propri agenti, cercando di edulcorare i fatti.
Assieme a Floyd tutti noi non riusciamo a respirare, ma non per questo possiamo smettere di provarci. A pieni polmoni, anzi, dobbiamo pretendere di respirare la giustizia che solo la legge, nei modi e nelle sedi che il nostro vivere civile ha stabilito e condiviso, può garantire.
Giustizia per George Floyd, giustizia per lo stato di diritto, giustizia per tutti noi.

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